«Pensare è scommettere sulla domanda contro il destino.
La domanda riguarda la nostra dignità. Sapere, domandare, informarsi, non dare nulla per scontato e aspettare con fiducia dopo la domanda, quando la risposta arriva e ci ha soddisfatto. Ebbene, questo può essere un modo di andare contro il destino». Haim Baharier, filosofo, matematico e tra i maggiori maestri talmudici viventi, parla del destino come di «una storia che “comunque si fa”», che nel linguaggio parlato porta con sé senso di stanchezza, di rinuncia, un arrendersi al “doveva succedere”. A questo, Baharier contrappone l’atto di generare, la possibilità di essere diversamente, lo sforzo di uscire dal destino e diventare soggetto della storia, e non più oggetto. In che modo?

Fare una domanda è generare, vuol dire aprire uno spazio a una risposta che deve arrivare, come per un figlio per il quale una coppia fa un passo indietro: generare è un motto di ritrosia, e quello spazio aperto si erge contro il destino.
Accade ogni giorno, accade in modo spesso inconsapevole, o non accade affatto: prenderne coscienza può allargare enormemente lo spazio di comprensione dell’essere, lo spazio del pensiero, della consapevolezza, della noia (uno spazio vuoto) come atto di libertà e di attesa vigile, di ripresa, riposo e maturazione.

Abbiamo la fortuna di godere di molteplici occasioni di ascolto della musica, di interpretazioni cristallizzate in incisioni o di atti unici dal vivo: non si coglie forse spesso quanto l’interpretazione sorga anch’essa da uno spazio generativo, aperto dall’interprete, dalla sua domanda davanti a una partitura, davanti a un autografo e dunque a un tempo, un luogo, un’appartenenza. Chi suona deve inevitabilmente porre una domanda e aprire uno spazio fertile, di studio, di riflessione, di ascolto e osservazione, di azione e di pura attesa.
E non consiste forse in questo anche l’ascolto?

Giuditta Comerci (settembre 2021)

Haim Baharier