Ascoltare e percepire. Jeanne Hersch

Il tempo: uno dei concetti naturali e filosofici più affiancati alla composizione musicale, alla sua realizzazione, alla sua riproposizione fuori dal suo tempo e alla percezione di chi ascolta.

“Per gli ascoltatori, il tempo del concerto è contemporaneamente una durata di due ore del tempo naturale senza presente e una radicale interruzione dello stesso tempo naturale, in virtù di un presente che dilata la musica. Piccolo «ora» che non passa, in cui per un istante l’eternità rimane prigioniera, come il cielo in una pozza.” (J. Hersch, Tempo e musica, p. 72)

Gli studi sul tempo e sulla ricezione della musica della filosofa ginevrina Jeanne Hersch toccano, anche in pochi scritti, svariate tematiche di ciò che è l’opera musicale, l’ascolto, la disposizione di esecutori e pubblico, la capacità della musica – e dell’arte – di cambiare concretamente la vita delle persone. In un momento storico in cui muoversi ha delle problematicità e ci si chiede per cosa valga la pena farlo, ci si interroga: perché andare a un concerto? E si ricorre proprio a chi sa pensare e poi analizzare il pensiero e l’emotività che ne consegue per rispondere con parole che altrimenti non sarebbe facile rintracciare:

“Non credo affatto che la musica sia un buon mezzo di comunicazione per le persone innamorate. Si usa spesso in questo modo, ma non si tratta di un uso propriamente musicale della musica, perché essa suscita, appunto, dei sentimenti davvero singolari, dei sentimenti che proviamo senza provarli. Nella musica ci sono desideri, timori, inquietudini, ma non implicano una posta in gioco. Ascoltando un’opera, non abbiamo bisogno di raccontarci una storia con una posta in gioco, come se il nostro desiderio o il nostro timore dipendessero da questo. Talvolta andiamo a un concerto per ascoltare una musica che ci farà soffrire, lo sappiamo perfettamente. Perché? Perché è una sofferenza che ci libera dal dolore nel momento stesso in cui lo proviamo. Questo è possibile solo perché si tratta di musica; perché la musica, pur essendo temporale, è atemporale. Per questo l’educazione musicale permette un approfondimento della nostra umanità. (pp. 101-102)”

Andiamo a un concerto vivendo il nostro tempo naturale, aspettando, ritardando, leggendo: agendo. Prendiamo posto. Quando si alza la bacchetta, quando si staglia la prima nota, quando i cantanti prendono il primo respiro il tempo si modifica, trascende, “passa e non passa”; la musica detta il decorso del tempo non più contandolo, ma qualificandolo in fasi differenti e collegate, nella forma atemporale dei mutamenti qualitativi (commovente, malinconico, eroico, ecc.) attraverso le svariate possibilità del suono, dai ritmi ai colori, dalle durate all’attacco, dalle linee melodiche all’armonia. Così due ore di musica restano due ore, ma il vissuto può restituircene trenta nella percezione di venti minuti.

Jeanne Hersch (Ginevra, 13 luglio 1910 – Ginevra, 5 giugno 2000)

Cosa mi ha restituito? La musica coinvolge l’affettività: è dunque incantamento, astrazione, illusione emotiva? Per Jeanne Hersch ciò che accade in quell’ascolto è una «miniatura di eternità», in cui il tempo pratico di due ore passa e contemporaneamente è sospeso, e in cui ogni fase emotiva e strutturale si dilata fino ad abbracciare l’intera opera. Così ciò che è stato e che ha avuto un suo senso (l’attacco, un primo tema, l’accordo che si trasforma, la singola nota), ne acquista ulteriori a ogni fase che si aggiunge, trasforma e completa il percorso.

Quel movimento affettivo è realmente vissuto dagli ascoltatori, quelle emozioni sono state realmente recepite perché neppure la contemplazione “annulla le altre dimensioni del tempo”, eppure nessuno ne resta asservito o sottomesso: perché quel dolore, quella commozione, quella malinconia non sono qualità storiche, ma eterne. Come spiegare il colore rosso (senza mostrarlo su un maglione) o la freschezza di un alito di vento nella calura.

“Emergendo dalla natura come una realtà per certi aspetti meno «oggettuale» di ogni altra opera d’arte (un quadro, una scultura ecc.), la musica non solo amplia i confini dell’esperienza, ma mostra anche la profondità del sentire, spegnendo per un momento il desiderio del possesso. Separa. Allontana le mani dal mondo «perché lo si tocchi meno e lo si veda meglio». E rinnova sulla terra il senso di un noto divieto: Noli me tangere. Non per umiliare i sensi; per insegnare, al contrario, ad amare meglio la materia, a vedere la vivacità del rosso o la meschinità di un’azione. […]

Per questo la musica è fatta di sentimenti, ma non è uno strumento di seduzione, è una lotta contro l’incantamento delle emozioni, la grammatica superficiale del cuore, attraverso il rigore e la trasparenza della geometria. Una lotta tra l’essere e l’avere.

Per questo la musica è fatta di sentimenti, ma non è uno strumento di seduzione, è una lotta contro l’incantamento delle emozioni, la grammatica superficiale del cuore, attraverso il rigore e la trasparenza della geometria. Una lotta tra l’essere e l’avere. Non una promessa d’amore, come quella che si scambiano gli amanti. Ascoltare un concerto vuol dire fare il vuoto, altrimenti il suono puro diventa rumore o fa il gioco della sinestesi che, di nuovo, incatena la musica ai sensi.” (p. 42-43, dalla Prefazione di R. De Monticelli a J. Hersch, Tempo e musica).

Giuditta Comerci (ottobre 2020)


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